Vincenzo Di Matteo, il sommelier Napoletano si racconta.

Nel cuore della Campania, dove la cultura del vino è intrecciata con storia, paesaggio e tradizione, incontriamo oggi un sommelier che ha fatto del vino non solo una professione, ma un’arte e una filosofia di vita. Tra calici, profumi e terroir, ci accompagna in un viaggio sensoriale fatto di abbinamenti sorprendenti e di quel sottile equilibrio tra tecnica e passione che rende ogni degustazione un’esperienza unica, perchè ci sono mestieri che si imparano, altri che si vivono. Quello del sommelier appartiene a quest’ultima categoria: un viaggio che parte dal cuore prima ancora che dal palato. In un mondo dove ogni sorso racconta una storia, incontriamo oggi Vincenzo Di Matteo, interprete appassionato di terre, profumi e silenzi fermentati in bottiglia. Sediamoci con lui, lasciamo che ci versi un bicchiere, e ascoltiamo cosa ha da raccontarci.
Ciao Vincenzo, ti ringrazio di aver accettato il mio invito. Allora iniziamo?
Vincenzo: Innanzitutto desidero ringraziarti Giovanni, per la tua immensa disponibilità e per il fatto che mi hai permesso di raccontarmi. Mi chiamo Vincenzo Di Matteo, sono nato a Napoli nel 1994 e vivo a Quarto, in provincia di Napoli. Sono un sommelier professionista, cresciuto tra le colline vulcaniche dei Campi Flegrei, ma con uno sguardo aperto sul mondo del vino in tutte le sue sfumature.
Mw: Come hai iniziato il tuo percorso nel mondo del vino e cosa ti ha spinto a diventare sommelier?
Vincenzo: Tutto è cominciato in maniera semplice, vera. Da bambino guardavo mio nonno fare il vino in casa, come si è sempre fatto nei Campi Flegrei. Era il classico vino del contadino: poche pretese, ma tanta anima. Ricordo l’odore del mosto, le botti in cantina, il rumore del torchio. Lui lo faceva con orgoglio, con rispetto per la vigna e per il tempo. A quel vino si dava del tu. Crescendo, quella semplicità mi è rimasta dentro, ma ho sentito il bisogno di capire, di approfondire, di dare un nome a ciò che da piccolo era solo istinto. Ho iniziato a studiare, ad assaggiare, a confrontarmi, e ho capito che il vino era molto di più: era un mondo intero, fatto di persone, di storie, di geografie e di emozioni. Diventare sommelier per me è stato naturale. Era il modo migliore per unire le mie radici con la mia voglia di raccontare, di servire, di condividere.
Mw: Quali sono le caratteristiche principali che un sommelier deve possedere per svolgere al meglio il suo lavoro?
Vincenzo: Credo che un buon sommelier debba avere innanzitutto ascolto e sensibilità. Serve grande preparazione tecnica, certo, ma anche la capacità di interpretare il cliente e guidarlo senza imporsi. Umiltà, memoria olfattiva, educazione al gusto e tanta curiosità sono le fondamenta. Ma soprattutto: il sommelier deve essere un narratore autentico, non un tecnico rigido.
Mw: Come selezioni i vini per una carta dei vini in un ristorante? Quali fattori consideri?
Vincenzo: Una carta dei vini non è solo un elenco, ma una dichiarazione d’identità. Quando la costruisco, considero l’identità della cucina, il target di clientela, la stagionalità e ovviamente il territorio, che per me resta sempre un punto di partenza. Cerco di bilanciare grandi nomi e piccole realtà, etichette note e produzioni artigianali. E non può mancare un pizzico di coraggio, perché una carta deve anche incuriosire.
Mw: Qual è il vino che consiglieresti a un principiante che si avvicina per la prima volta al mondo del vino?
Vincenzo: Consiglierei una Falanghina dei Campi Flegrei DOC. Non solo perché è un vino del mio territorio, ma perché è accessibile senza essere scontato, fresco ma con personalità, con quella tipica sapidità vulcanica che lo rende subito riconoscibile. Ha profumi immediati, agrumati e floreali, una beva pulita, diretta, e accompagna bene tantissimi piatti, dal mare alla terra. È il vino giusto per cominciare a capire che il vino non deve complicarti la vita, ma accompagnarti, e può farlo con eleganza e semplicità allo stesso tempo.
Mw: Puoi spiegare il processo di degustazione di un vino e cosa dovrebbe essere notato in ciascuna fase?
Vincenzo: Degustare un vino è come conoscere una persona. Ci sono regole, certo, ma poi c’è tutto quello che va oltre.
Si comincia con gli occhi: il colore ti parla già di età, tipologia, energia. Poi arriva il naso, ed è lì che comincia il viaggio. Un profumo può riportarti a un ricordo, a un luogo, a una stagione della vita. E infine l’assaggio, il momento più intimo, dove struttura e emozione si incontrano. Dal punto di vista tecnico si osservano limpidezza, intensità cromatica, consistenza. Al naso si valutano intensità, complessità, qualità degli aromi. In bocca si percepiscono equilibrio, struttura, evoluzione, persistenza. Ma tutto questo ha senso solo se ci metti anche te stesso. Un vino non si giudica solo, si ascolta, si accoglie. È un dialogo silenzioso che cambia ogni volta. E ogni volta può dirti qualcosa di diverso.
Mw: Come si abbinanoi vini con i piatti? C’è una regola generale o dipende dalla situazione?
Vincenzo: Sicuramente ci sono delle logiche, dei criteri che guidano l’abbinamento. Ma la verità è che ogni piatto, ogni vino e ogni persona fanno storia a sé. Per me, un buon abbinamento nasce quando il vino non copre il piatto e il piatto non schiaccia il vino, ma si guardano negli occhi e si rispettano. Devono camminare insieme. A volte bastano pochi elementi per creare magia: una bollicina su un fritto, un rosso delicato su un ragù della domenica, un bianco salino su una tartare di mare. Ma è la situazione, la compagnia, perfino il silenzio a fare la differenza. Più che regola, io parlerei di empatia. Ogni abbinamento ben riuscito ha qualcosa di profondamente umano: è questione di equilibrio, ma anche di sentimento.
Mw: Quali sono le tendenze più interessanti nel mondo del vino oggi?
Vincenzo: Oggi vedo una spinta fortissima verso la verità, verso il vino che racconta la terra, il produttore, l’annata. La gente è stanca delle maschere e cerca autenticità, anche nel calice. Mi colpisce il ritorno ai vini territoriali, ai vitigni autoctoni minori, alla lentezza. E trovo straordinario che sempre più giovani si avvicinino al vino non per status, ma per curiosità vera.
Mw: Che ruolo gioca la regione di provenienza di un vino nella sua qualità e caratterizzazione?
Vincenzo: La regione non è solo un punto sulla mappa: è il respiro del vino. Ogni terra ha un suo ritmo, un suo odore, un suo modo di crescere le cose. Un vino nasce da lì, ma anche da come quella terra è vissuta, da chi la abita, da chi la lavora. Un bianco che nasce vicino al mare non potrà mai avere lo stesso passo di uno che cresce tra le montagne. E non parlo solo di sapidità o acidità, parlo di carattere. Perché la terra imprime un’impronta che va oltre il dato tecnico: è memoria, è linguaggio. Un vino, se è vero, sa di casa, ovunque quella casa sia. E quando assaggio un vino che racconta sinceramente il luogo da cui proviene, io mi emoziono. Perché non sto solo bevendo: sto viaggiando.
Mw: Puoi raccontarci di un incontro memorabile che hai avuto con un produttore di vino o un sommelier durante la tua carriera?
Vincenzo: Di incontri ne ho avuti tanti, e ognuno mi ha lasciato qualcosa. Ma se devo citarne due che mi hanno davvero segnato, il primo è sicuramente Raffaele Sullo. Ho avuto la fortuna di lavorare con lui fianco a fianco: non era solo un collega, era un riferimento, una guida. Mi ha trasmesso la voglia di studiare davvero, di approfondire, di cercare nel vino qualcosa di più del gusto. Con lui ho capito che la conoscenza va coltivata con passione e costanza, giorno dopo giorno, calice dopo calice. L’altro è Sebastiano Aiello, un amico prima ancora che un collega. E’ stato lui a infondermi l’energia del “non mollare mai”. Il suo entusiasmo per il vino, per i viaggi, per le storie da scoprire mi ha spinto a uscire dalla comfort zone, a guardare sempre un po’ più in là, a credere che ogni bottiglia nuova potesse insegnarmi qualcosa. A loro due devo molto. Se oggi sono quello che sono, è anche grazie a chi ha creduto in me prima ancora che lo facessi io.
Mw: Qual è il tuo vino preferito e perché?
Vincenzo: Mi piacciono i vini che trovano equilibrio tra eleganza e sincerità. Non cerco l’effetto wow, ma la finezza che arriva piano e resta. Tra i bianchi, adoro un Vermentino ben fatto: profuma di macchia mediterranea, ha il sale addosso, è vivo, diretto, ti mette subito a tuo agio. Tra i rossi, invece, mi affascinano quelli con una struttura sottile ma presente, tannino levigato, e uno stile raffinato, quasi in punta di piedi. Vini che mi ricordano un po’ la Borgogna. Non devono urlare per farsi notare: basta il modo in cui si muovono nel bicchiere. Il vino che preferisco è quello che ha personalità senza presunzione, e che riesce a sorprendermi anche dopo il terzo sorso.
Mw: In un mondo in continua evoluzione, come pensi che la figura del sommelier si stia adattando alle nuove esigenze del pubblico?
Vincenzo: Il sommelier oggi non può più essere solo il custode della cantina. Deve essere un comunicatore, uno storyteller del vino, capace di parlare a tutti: all’appassionato, al curioso, al cliente che si avvicina per la prima volta.
Serve empatia, umiltà, apertura. Il vino non è solo prestigio: è condivisione, emozione, memoria liquida.
Mw: Cosa pensi della crescente attenzione verso i vini naturali e biologici?
Vincenzo: Credo sia un cambiamento positivo, a patto che non diventi moda fine a sé stessa.
Un vino naturale, per me, deve essere buono, coerente, curato. Amo i vini che parlano piano, che hanno dentro la terra e il silenzio, che non urlano. E se un produttore riesce a fare tutto questo rispettando la natura, allora tanto di cappello.
Mw: Qual è il miglior consiglio che daresti a chi vuole entrare nel mondo del vino e diventare sommelier?
Vincenzo: Studia tanto, ma non perdere mai la meraviglia. Assaggia con rispetto, ascolta chi ha mani sporche di terra, fai domande senza paura. E soprattutto: servi il vino, non te stesso.
Mw: Ci sono dei miti o delle credenze errate che spesso senti sul vino che ti piacerebbe sfatare?
Vincenzo: Ce ne sono tanti, ma il più grosso è questo: che il vino debba essere per forza complicato per essere buono.
Io penso l’opposto. Il vino deve emozionare, non mettere soggezione. Non serve saperne mille cose per godersi un calice. Un altro mito? Che il rosso vada solo con la carne e il bianco solo col pesce. È una semplificazione che toglie tutta la bellezza del gioco degli abbinamenti. Ci sono bianchi che reggono piatti di grande struttura e rossi che stanno da favola con una zuppa di pesce. E poi il classico: più costa, più è buono. No. Un vino buono è quello che ti fa venire voglia di berlo ancora. Che costi dieci o cento euro, deve solo raccontarti qualcosa. Il vino non è gara, è condivisione. Se perdiamo questo, perdiamo tutto.
Mw: Cosa rende un’esperienza di degustazione del vino unica per i tuoi clienti?
Vincenzo: Credo che la differenza la faccia il modo in cui accompagni una persona dentro quel calice.
Un vino può essere anche tecnicamente perfetto, ma se non riesci a creare un ponte emotivo tra chi lo beve e ciò che rappresenta, resta solo un liquido buono, niente di più. Una degustazione diventa unica quando chi sta servendo quel vino ci crede davvero. Quando c’è ascolto, racconto, silenzio dove serve, tempo dove serve. Io non voglio riempire i bicchieri: voglio accendere curiosità, regalare un ricordo, creare un momento che resti. Alla fine, il vino è solo un mezzo. L’obiettivo è sempre lo stesso: far sentire quella persona al centro di qualcosa di vero.
Mw: Infine, cosa ti ha spinto ad accettare di raccontare la tua storia tramite Mister Wine?
Vincenzo: Credo che il vino vada raccontato con autenticità, e Mister Wine mi ha dato subito la sensazione di uno spazio vero, umano, fatto da chi ama davvero questo mondo. Ho accettato l’invito con gratitudine, perché se anche solo una persona leggendo le mie parole si avvicinerà al vino con più curiosità o passione… allora ne sarà valsa la pena.

Articolo a cura di Mister Wine – Giovanni Scapolatiello – Sommelier Ais.